“Noi, italiani di serie B in attesa della cittadinanza”

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Sono nati in Italia, ma a 18 anni rischiano l’espulsione. Ecco i ragazzi che chiedono una legge che riconosca lo “Ius soli”, e che domani animeranno lo “sciopero dei migranti”
DI ILARIA VENTURI

Quando gli chiedi: “Da dove vieni?”, Mohannad, 16 anni, scuote la testa. E con pazienza, tanto ci è ormai abituato, risponde: “Da Bologna, sono nato qui”. Questa città è la sua. L’Emilia è la terra in cui è nato. L’Italia è il suo Paese. Ma Mohannad non è cittadino italiano. E non lo sono nemmeno Mohamed e suo fratello Moaz. Sono gli stranieri di “seconda generazione”, adolescenti a rischio di espulsione quando compiranno 18 anni se non troveranno in fretta un lavoro.

Un problema che riguarda chi è nato qui, ma soprattutto chi è arrivato qui da piccolissimo. Così vuole la legge Bossi-Fini: un provvedimento che ha mobilitato la sinistra, i sindacati e le associazioni, contro cui è stata promossa la campagna “L’Italia sono anch’io” – tremila firme raccolte nella sola Bologna – e al quale si ribellano ora questi ragazzi. Chiedendo: “Cittadinanza subito, senza se e senza ma”.

Si faranno sentire – domani, giovedì 1 marzo – nella giornata dello sciopero dei migranti, mobilitando le scuole superiori con un corteo da piazza dell’Unità (ore 9) al Nettuno. Sono gli adolescenti del progetto “On the move”, nato dal Coordinamento migranti: si ritrovano ogni settimana per un laboratorio di hip hop al centro sociale Xm24 di via Fioravanti: on the move, appunto, generazione in movimento.
E da lì è nata l’idea della mobilitazione studentesca. Perché quel nome “2G”, immigrati di seconda generazione, a loro proprio non va giù: “Già è un’etichetta, e poi è sbagliata. Io sono nato qui, non sono un migrante”, spiega Mohannad che frequenta alla Fondazione Aldini la formazione professionale. “Non siamo secondi a nessuno”, ripetono. Mohamed, 14 anni, è iscritto all’istituto Majorana, suo fratello Moaz fa le medie. I loro genitori sono egiziani, entrambi laureati (ma il titolo di studio non vale più al passaggio delle frontiere), senza poter fare qui il lavoro per cui hanno studiato. Sono i loro figli a parlare. “Quello che mi fa arrabbiare è che se sei nato qui dovresti avere diritto alla cittadinanza, invece no. Io mi sento pienamente cittadino italiano, e non è certo per il colore della mia pelle che posso essere discriminato”, dice Mohamed. “Vivo qui e vivrò qui, quando vado in Egitto mi sento solo, non ho amici”. Capita anche a Mohannad di sentirsi “senza radici” quando va in Marocco. Con loro c’è anche Francesca, studentessa del Sabin. “Io sono bolognese, italiana. Ma sto con loro in questa battaglia che riguarda tanti miei amici, i miei compagni di scuola: non posso pensare di perderli quando saranno maggiorenni, lo trovo ingiusto. Io voglio cambiare un mondo che divide le persone in serie A e B”.

Questi ragazzi – a fine 2009, dicono i dati statistici del Comune, erano 5.529 gli stranieri nati in Italia e residenti a Bologna – hanno realizzato un video, che li mostra nella loro quotidianità, per sostenere la loro lotta. “C’è un numero che trasforma alcuni in cittadini, altri in clandestini: indovina quale?”, chiedono provocatoriamente gli studenti. Ovviamente, il 18. “Siamo preoccupati per quello che ci aspetterà quando avremo diciotto anni, con la crisi trovare lavoro è difficile. Tanti nelle nostre condizioni non sanno nemmeno di questa legge. E poi molti di noi vorrebbero anche continuare a studiare, invece no, i professori ma anche gli stessi genitori ti indirizzano al lavoro. Se lo trovi, hai sei mesi di tempo, dice la legge. Una legge ingiusta, che vogliamo abolire”, si sfogano. Anche perché, osserva Francesca: “Siamo noi, con loro, il futuro”.

(29 febbraio 2012)

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